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Branding e traffico posizionandosi in Google Suggest!

Sono convinto che, nella percezione dell’utente, i suggerimenti di ricerca di Google o di altri motori di ricerca provengano semplicemente dal motore stesso. L’utente non sa che i suggerimenti ricevuti sono conseguenza di un calcolo statistico sulle ricerche più popolari o del momento e, per quello che gli riguarda, ricevere un suggerimento da Google implica che il suggerimento sia buono, perché tutto sommato proviene da un brand che negli anni ha investito per ottenere fiducia dalle persone.

L’effetto del suggest durante la digitazione della ricerca ha introdotto per la prima volta nel rapporto utente-motore un profondo cambiamento: in base a quanto il motore suggerisce, l’utente può essere indirizzato verso ricerche che all’inizio della digitazione non pensava di fare. In un certo senso, il suggerimento ha in parte la forza di distogliere l’utente dall’intenzione iniziale per portarlo su strade nuove e, auspicabilmente, verso traguardi per lui più utili o interessanti.

In che modo le aziende si pongono in questo morboso triangolo d’amore e odio utente-motore-azienda?

Le aziende che hanno investito nel proprio brand per diverso tempo, fino a farlo diventare popolare nel proprio settore o popolare in associazione ad un prodotto, possono beneficiare della visibilità aggiuntiva che deriva da Google Suggest.

Il fenomeno è molto evidente in quei contesti in cui le query che iniziano con una categoria di prodotto o servizio vengono “completate” dai suggerimenti del motore con i brand solitamente associati al prodotto. Il primo esempio che mi viene in mente è quello delle assicurazioni online, ma ne esistono diversi altri.

Un brand che appare in un suggerimento di ricerca si è meritato quello spot di visibilità perché ha investito per associare in maniera molto forte il proprio marchio con la tipologia di prodotto. Quello spot è la conseguenza di quanto alcuni utenti cercano, ma il brand viene suggerito anche agli utenti che all’inizio della digitazione non pensavano in maniera specifica a quel brand. E questo fenomeno rappresenta un’opportunità per aumentare il valore di un marchio e per ottenere nuovo traffico qualificato.

L’idea malsana

Da un po’ di tempo mi frulla per la testa l’idea di posizionare una query all’interno di Google Suggest. Solo un’immagine può trasmettere l’effetto che si potrebbe ottenere.

Esempio della visibilità che si potrebbe ottenere posizionandosi su Google Suggest

Clicca per osservare l'effetto finale

Il risultato ottenibile si discosterebbe dal classico posizionamento di un sito web nei risultati di una ricerca, perché presenta caratteristiche che mi affascinano e che, per quello che ne so, non sono state finora esplorate:

  • il suggerimento del brand avverrebbe prima ancora che l’utente effettui la ricerca (modifica del percorso di ricerca)
  • il brand verrebbe chiaramente associato ad una tipologia di prodotto (identità)
  • nella lista di suggerimenti, il brand sarebbe in buona compagnia di altri brand affermati (autorevolezza)
  • qualora l’utente selezioni quella ricerca, l’intera SERP risultante sarebbe incentrata sul brand (presidio della SERP)

Adesso, quelli di voi che mi conoscono penseranno che l’applicazione dell’idea avrebbe come inevitabile sfogo la simulazione di ricerche degli utenti. E mi conoscono bene, perché in effetti è così, tuttavia sarebbe errato pensare che l’obiettivo non possa essere raggiunto attraverso normali attività di marketing.

Per esempio, degli spot radiofonici potrebbero comprendere come messaggio finale una call-to-action in cui si invitano le persone a “cercare su Internet” [sic] “tipoprodotto brand“, al fine da indurre una nascita naturale delle ricerche che associano il tipo di prodotto al marchio da posizionare (per una volta, in tutti i sensi).

Va da sé che l’associazione non avverrebbe solo nella testa delle persone ma anche negli algoritmi di clustering del motore di ricerca.

Infine, se la ricerca consigliata risultasse poco digitata fino all’inizio della campagna radiofonica, un picco di accessi con quella keyphrase potrebbe anche essere considerato uno strumento di monitoraggio del ROI. Figo, no? Insomma, io lo trovo figo.

Di sinergia tra search marketing ed altri canali di visibilità si potrebbe parlare a lungo: ce n’è sempre stata troppo poca e a mio parere tanto si potrebbe fare per ottimizzare gli investimenti e ottenere maggiori benefici senza maggiorazioni di costo significative. Le idee non mancano, da sradicare è la gestione dei canali a compartimenti stagni o privi di una regia comune.

Ma torniamo agli aspetti più beceri: la simulazione di query. Le persone più attente su FaceBook avranno notato un mio strano screenshot che immortala le prime fasi della progettazione di un querybot. La faccenda mostra sfide piuttosto complesse.

Su questo progetto vi aggiornerò, come per tutti gli altri, strada facendo. 🙂

Dal più basso livello possibile

Il nickname “Low Level” mi ha accompagnato sin da quando ho iniziato a muovere i primi passi sulla Rete. Non era nemmeno Internet, era una roba che si chiamava Fidonet. Se non avessi cannibalizzato l’adattatore telematico del Commodore 64 subito dopo l’acquisto per farne nonricordocosa, probabilmente avrei conosciuto anche l’emozione del Videotel.

“Low level” significa letteralmente “basso livello” ma non si tratta di un’indicazione sulla qualità di qualcosa: “basso livello” significa semplicemente indagare in profondità il meccanismo di qualsiasi cosa per capire come funziona. E’ la voglia di smontare i giocattoli per capire quali ingranaggi li regolano. La programmazione di software a basso livello, per esempio, è quella che si fa programmando direttamente nel linguaggio della CPU o di altri chip.

Capirete da voi che quando si è colpiti da questo “morbo” sin da piccoli, la famiglia del pargolo può incontrare serie difficoltà a finanziare i continui e folli smantellamenti di giocattoli del novello Dottor Frankenstein. Se i genitori possiedono un minimo di buonsenso, iniziano scaltramente a razionare i regali e questo è un bene perché a questo punto solitamente avviene l’evoluzione: alla fase esplorativa il bambino è costretto ad aggiungere la fase creativa.

Inizia ad assemblare i componenti precedentemente espiantati al modellino di Mazinga e al trenino elettrico, gli aggiunge la paletta per raccogliere la sporcizia, un elastico, due graffette e ci tira fuori un acceleratore di particelle, dove le particelle sono delle palline di chewing-gum che sfruttano la potenza propulsiva dell’ordigno appena inventato per trasformarsi in fastidiosissimi proiettili al colorante rosso E120.

Da quel momento non la pianta più di fare ‘ste cose. I genitori mantengono comunque un equilibrio psichico perché saltuariamente fanno echeggiare in maniera strategica delle parole magiche quali “collegio” o “circo togni” (e non per portarcelo come spettatore) e tutto va avanti in maniera più o meno serena. Ma se un figlio così dovesse capitare a voi, non regalategli mai un gatto, perché passare da un acceleratore ad un divaricatore è un attimo.

E da grande? Da grande non  smette. Che si tratti di informatica, di marketing, di motori di ricerca e SEO o persino di relazioni interpersonali, continua ad osservare, a studiare e a cercare di trovare modi ottimizzati (si legga: migliori) di fare le cose a beneficio proprio e altrui.

E si diverte un mondo. Io spero di darne evidenza su questo blog.

Alla prossima!